domenica 21 novembre 2010

Una interessante analisi delle leggi elettorali italiane dell'ultimo ventennio

Legge Elettorale - Approfondimenti
Scritto da www.riforme.info
Domenica 14 Novembre 2010 12:27
di Franco Ragusa

Sulle leggi elettorali non si finisce mai di sentire o leggere gli argomenti interessati di chi, legittimamente, ma non per questo giustamente, sa di poter trarre vantaggi da un meccanismo elettorale piuttosto che da un altro.
Non è un caso, quindi, se dal dibattito sulla necessità di liberarsi del Porcellum risulti quanto mai difficile registrare sostanziali elementi di novità, se non la mera riproposizione, da parte delle forze politiche presenti in Parlamento, di un passaggio da un sistema maggioritario all'altro, da un sistema bipolare all'altro, il tutto accompagnato, a parole, dal nobile intento di restituire agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Un argomento forte, quest'ultimo, in grado di raccogliere larghi consensi e che potrebbe divenire il grimaldello per farsi ascoltare da un'opinione pubblica sin troppo stremata da oltre 16 anni di brutta politica.
Dalle parole ai fatti, però, è sin troppo evidente come le soluzioni proposte, non interessate ad approfondire i guasti prodotti dai due meccanismi elettorali di tipo maggioritario e bipolare sperimentati in Italia, non siano in grado di eliminare il “Parlamento dei nominati” che storicamente ha origine con la nascita, prima ancora del Porcellum, del primo partito-azienda in coincidenza con il passaggio dal sistema proporzionale al sistema maggioritario dei collegi uninominali.

Altro fatto storico accertato, inoltre, è che tutto ciò avvenne vanificando i primi effetti positivi provocati dall'unica riforma della legge elettorale, l'abolizione della preferenza multipla, mostratasi in grado di correggere, dall'esterno e per mano degli elettori, le degenerazioni del sistema partitocratico.
Nel 1992 ha infatti avuto luogo la “prima ed ultima elezione” con una legge elettorale di tipo proporzionale e con la possibilità, per gli elettori, di esprimere una sola preferenza.
La preferenza multipla era stata cancellata con il referendum elettorale del giugno 1991 e, come prevedibile, la vita interna dei partiti, dalla base ai vertici, ne fu stravolta.
Per la prima volta i piccoli candidati senza speranze si ritrovarono nell’impossibilità di ottenere spazi di privilegio all'interno del partito, non avendo più a disposizione la preferenza multipla attraverso la quale “vendere” al miglior offerente il proprio bacino elettorale. Problemi di natura opposta per i frequentatori dei corridoi alti, senza più strumenti per controllare i flussi delle preferenze.

Si era quindi passati dalle candidature fasulle, al solo scopo di portare voti a questa o quella corrente di partito, se non addirittura per vigilare, attraverso la combinazione delle preferenze da indicare sulle schede, sul comportamento degli elettori, ad essere costretti a concorrere sul serio: ognuno per sé e tutti per il partito.
In altre parole, a seguito di una semplice modifica della legge elettorale di tipo proporzionale, senza che venissero intaccati i principi di fondo della rappresentanza, le segreterie di partito si ritrovarono a dover fare i conti con un elettorato non più “usabile” dai mercanti di voti.

Con ogni probabilità, fu questa la molla che contribuì ad allargare il fronte politico dei favorevoli al sistema elettorale di tipo maggioritario.
Chi non poteva più controllare l’elettorato si ritrovò con le spalle al muro e con la necessità di sostenere un sistema in grado di restituire alle segreterie di partito l’individuazione e la nomina dei futuri parlamentari.
Erano gli anni di tangentopoli, della bancarotta e, senza dubbio, avrebbero potuto essere gli anni per l’effettivo passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. La gente era stufa e chiedeva a gran voce il cambiamento.
Troppo, decisamente troppo per un ceto politico che vedeva sfuggirgli di mano la situazione.
C’era da trovare un capro espiatorio sul quale indirizzare la protesta e, come per incanto, si ritrovarono tutti d’accordo nell’individuare la soluzione di tutti i mali: la legge elettorale di tipo proporzionale era la causa di tutto.
Il debito pubblico? Colpa del proporzionale.
La Corruzione? Il proporzionale.
Il mancato ricambio della classe politica? Sempre il proporzionale, anche se le elezioni del 1992 avevano registrato la crescita della Lega e un buon numero di “vecchi” parlamentari non rieletti perché “ghigliottinati” dalla preferenza unica.

Fu così, quindi, che la politica riuscì a cavalcare l’onda popolare dell’antipolitica, con un obiettivo di cambiamento che non cambiava nulla ma che, anzi, riportava indietro le cose.
A capo di questo “non cambiamento” gli strateghi della sinistra “governante” che, troppo impegnati a festeggiare in anticipo la vittoria elettorale che prevedevano sarebbe sicuramente arrivata con l'adozione di una nuova legge elettorale di tipo maggioritario, riuscirono nell'incredibile impresa di fornire la ciambella di salvataggio proprio a quel sistema politico clientelare che, qualsiasi cosa avesse proposto, sarebbe stata certamente guardata con diffidenza. Nel coro dei “nuovisti” si distinse, infatti, l’allora PDS, tra i principali sostenitori del quesito referendario con il quale, nel 1993, con un abile taglia e cuci si riuscì a trasformare la legge elettorale per il Senato, dagli esiti distributivi di tipo proporzionale, nel suo esatto contrario.

La vittoria del referendum produsse una legge elettorale per il Senato maggioritaria al 75% (collegi uninominali) e con recupero proporzionale dei non eletti per il restante 25%.
Per la Camera il legislatore decise per le stesse quote, introducendo, però, una seconda scheda per l’assegnazione della parte proporzionale.
Tra le principali caratteristiche della nuova legge elettorale: gli elettori non avevano più la possibilità di esprimere il voto di preferenza all’interno dei partiti o degli schieramenti preferiti.
Con il sistema dei collegi uninominali, infatti, soltanto in apparenza il voto è dato alla persona, perché nella realtà ciò che si vota sono le forze politiche candidate a governare.
Certo, anche con la precedente legge elettorale si votavano, sostanzialmente, le forze politiche, ma la differenza è sin troppo evidente: con i collegi uninominali è soltanto il partito o la coalizione, e non l’elettore, a selezionare e scegliere chi, di quel partito o schieramento, andrà in Parlamento.

Non contenti, però, di aver ottenuto, per via indiretta, il controllo totale degli eleggibili al Senato e del 75% alla Camera, per la seconda scheda per la Camera, per quanto di tipo proporzionale, venne esclusa la possibilità di esprimere la preferenza. Anche per questo voto, la sequenza degli eletti era predeterminata da una lista bloccata, con l’unica possibilità, per gli elettori, di prendere o lasciare il pacchetto così confezionato dai “padroni” della liste.

Create così le premesse per la formazione di Parlamenti totalmente asserviti ai desideri dei Capi, nulla di più logico che dal nulla arrivasse un Caudillo in grado di utilizzare al meglio la nuova legge elettorale di tipo maggioritario.
Nel giro di pochi mesi si assiste alla nascita di un nuovo fenomeno (fenomeno in tutti i sensi) politico.
Silvio Berlusconi, un signore legato mani e piedi con quanto di peggio la politica aveva espresso negli ultimi anni, dal nulla crea un nuovo soggetto politico a sua immagine e somiglianza.
Si assiste, per la prima volta nella storia repubblicana, alla nascita di un partito-azienda con a capo, indiscusso e indiscutibile, il padrone di tre reti televisive a carattere nazionale, giornali e, altro dettaglio non trascurabile, con ingenti disponibilità economiche da riversare sulla politica. 
Nasce e si sviluppa, in altre parole, un vero è proprio virus, il berlusconismo. Una degenerazione della politica che, nei suoi aspetti più tragicomici, di lì a poco coinvolgerà tutto il panorama politico. In breve tempo, infatti, prenderanno forma altri soggetti politici, non più di tipo partecipato, ma che faranno dell'identificazione con il leader la loro ragion d'essere.
Del resto, attendersi un comportamento più virtuoso sarebbe stato quanto mai ingenuo vista, appunto, la nuova legge elettorale che non consentiva un vero potere di scelta da parte degli elettori e i continui successi elettorali del berlusconismo, fondati sull'abile interpretazione del meccanismo elettorale maggioritario e della forzatura bipolare.
E' d'obbligo ricordare, infatti, i tempi e i modi della prima vittoria elettorale di Berlusconi.
Nel 1994, nel giro di pochi mesi Berlusconi si mette a capo, nell’impossibilità di tenere unite AN e Lega Nord sotto un solo simbolo, due diverse alleanze elettorali con il solo scopo d’impedire la vittoria della sinistra.
Ebbene sì, se chi arriva primo prende l’intera posta, è sufficiente suscitare timori per poter chiedere agli elettori un voto contro che, però, diviene anche investitura per governare con pieni poteri.
Senza un partito, quindi, ma con alle spalle un impero mediatico-imprenditoriale, imbracciata la bandiera dell’anticomunismo e a capo di due coalizioni che non sembravano poter convivere a lungo, Berlusconi vince le elezioni del ’94 con al seguito un nutrito gruppo di collaboratori che possiamo ben definire, a vario titolo, suoi dipendenti. Dipendenti nella vita d'azienda, dipendenti nella vita politica.

Ridotto l'esercizio del diritto di voto a mera partecipazione formale da parte degli elettori, estromessi definitivamente riguardo la scelta della classe politica e costretti a subire il ricatto del voto utile dalla logica maggioritaria del chi arriva primo prende l'intera posta, nulla di più logico e conseguenziale il successivo assalto ai valori fondanti il patto costituzionale che vide, pur se con lievi sfumature, più di forma che di sostanza, sia il centrodestra che il centrosinistra concordi nel sostenere la necessità di riformare in profondità la seconda parte della Costituzione.

Quest'altro dato storico, peraltro, ci fornisce gli elementi di analisi per indagare un altro dei falsi problemi sollevati per sconsigliare il ritorno al sistema proporzionale: il timore del ritorno di un centro politico paludoso in grado d'impedire forme di alternanza di governo.

E' infatti sufficiente guardare alla sostanza politica di quanto realizzato in questi ultimi anni per rendersi conto di come la realtà sia stata ben diversa dalle etichette.
In primo luogo, dall'introduzione del maggioritario entrambi gli schieramenti hanno fondato la loro "proposta di governo" con l'imperativo di attirare il centro, con annessi e connessi. Non solo gli elettori, per intenderci, ma anche i vari Mastella, Casini, Dini, ecc.
Il perché di questo è facilmente intuibile: se "chi arriva primo prende tutta la posta", diventa necessario intercettare tutti i voti possibili.
Ma i voti di centro, con un simile meccanismo, valgono doppio, perché possono spostarsi da uno schieramento all'altro. Se si perde il 2% di un estrema, difficilmente questi voti potranno passare dall'altra parte; se lo si perde al centro, invece, è alto il rischio che questa perdita possa divenire un +4% per l'altro schieramento.

A questa politica di riguardo verso il ceto politico e l'elettorato di centro ha poi corrisposto il superamento, almeno a sinistra, di tutta una serie di valori di riferimento e programmatici, lasciando così senza rappresentanza e senza tutele tutti quei settori sociali non compatibili con la politica fatta di freddi numeri e di saldi di bilancio.

Ma a prescindere da questo tipo di considerazioni, che potrebbero essere definite valutazioni prettamente politiche, c'è il dato storico delle cose sottoscritte e approvate che, ben lontane dal concetto di alternanza tanto magnificato, sulle questioni più critiche hanno visto il sostanziale accordo del centrodestra e del centrosinistra.

Nell'ordine:
1) L'istituzione, subito dopo la vittoria elettorale del centrosinistra nel 1996, di una commissione bicamerale per le riforme presieduta dall'On. D'Alema che, quasi all'unanimità, arrivò ad approvare un ampio progetto di revisione costituzionale che prevedeva una forma di Governo presidenziale, il federalismo e, sul fronte giustizia, la separazione delle funzioni per pm e giudici, due sezioni diverse del Csm, una Corte disciplinare diversa dal Csm, l'aumento del numero dei membri laici del Consiglio, le scelte di politica criminale fissate ogni anno dal Parlamento.
L'operazione saltò in dirittura d'arrivo, ma i contenuti di quel progetto sono stati in parte realizzati successivamente e, ancora oggi, continuano impegnare l'agenda politica.

2) L'approvazione, con il superamento del quorum dei due terzi in entrambe le Camere, delle modifiche costituzionali che hanno introdotto l'elezione diretta dei Presidenti di Regione. Una sorta di super Presidente che, grazie ai cosiddetti poteri antiribaltone, può minacciare lo scioglimento del Consiglio regionale a suo insindacabile volere.

3) L'approvazione del nuovo Titolo V che ha introdotto in Italia un vero e proprio federalismo competitivo. Su tutto, l'inserimento in Costituzione del principio dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. In altre parole, obiettivo della “Repubblica federale italiana” non è il raggiungimento di uguali livelli di prestazioni, bensì quello di fissare per legge le differenze, i livelli essenziali, dividendo così i cittadini in cittadini di serie A e di serie inferiori.
Per quanto approvata con soli 4 voti di scarto dal solo centrosinistra, la riforma federalista si rivelò così ben gradita al centrodestra che si guardò bene dal fare una vera campagna elettorale contro il referendum che nel 2001 confermò le modifiche al Nuovo Titolo V.

4) Alle elezioni del 2001 sia la Casa delle Libertà che l’Ulivo si presentarono agli elettori con un simbolo con il quale veniva esplicitamente indicato il candidato Premier.
Approfittando, quindi, degli effetti della nuova legge elettorale maggioritaria, veniva estorta agli elettori l’indicazione del futuro Capo del Governo.
Con un comportamento bipartisan e senza aver cambiato una riga della Costituzione, di colpo veniva meno un altro dei pilastri del sistema parlamentare.  Il potere di nomina del Presidente del Consiglio passava così dalle mani del Presidente della Repubblica, ed il confronto tra le forze politiche rappresentate in Parlamento, direttamente nelle mani delle segreterie di partito e gli accordi stipulati prima delle elezioni, il tutto da sottoporre ad un corpo elettorale che non avrebbe avuto altra scelta che subire il meccanismo imposto dalle due minoranze meglio organizzate. Certo, c’era anche la possibilità di rimanere a casa … Insomma, liberi di scegliere se aderire o no al nuovo corso imposto dalle forze maggiori.5) Riabilitata la casa reale che nulla fece per fermare il fascismo e che da questi si fece guidare la mano per firmare anche le odiose leggi razziali.6) Approvazione, da parte del centrodestra, di un organico progetto di revisione costituzionale, poi bocciato dal referendum confermativo, che in tema di poteri del Premier riprendeva quanto affermato nella “Bozza Amato” del dicembre 2003, sottoscritta dagli allora segretari di tutto il centrosinistra e che così testualmente recitava:
”per garantire il rispetto della volontà politica degli elettori e per evitare il rischio di uno scollamento tra cittadini e sistema politico, è giusto che non siano legittimati i c.d. ribaltoni. In questo senso, si conviene sul fatto che debba rendersi noto, contestualmente alla pubblicazione del programma elettorale, il nome del candidato alla guida del Governo, senza tuttavia farne oggetto di separata menzione nella scheda elettorale. Egli sarà poi nominato dal Presidente della Repubblica e investito della fiducia iniziale del Parlamento (o della Camera). In caso di sfiducia, e su sua proposta, vi sarà lo scioglimento a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato”.
Come si può inoltre intuire dalla breve lettura della bozza Amato, si comprende facilmente a chi il centrodestra si sia poi ispirato anche in occasione dell'approvazione della nuova legge elettorale ora vigente in tema di deposito dei programmi e nome del candidato alla guida della coalizione.

7) La continuità sostanziale della politica estera, in tema di missioni militari all'estero e accordi militari intrapresi dai precedenti governi, quale che sia stata la forza politica al Governo.

8) Il tacito accordo Veltroni-Berlusconi per le elezioni del 2008, infine, per utilizzare l'attuale legge elettorale, il Porcellum, in chiave bipartitica e contro tutti i precedenti alleati. La vicenda, peraltro, ha mostrato chiaramente come la sconfitta di Berlusconi non fosse un obiettivo prioritario del PD.

Ricostruito il quadro storico che, da solo, dovrebbe essere più che sufficiente per ripensare la scelta maggioritaria e l'adesione allo schema bipolare, non ci si può però permettere di ignorare che è forte il rischio di ritrovarsi da soli a combattere contro i mulini a vento.
L'attuale assetto politico-parlamentare ha, infatti, tutto l'interesse a mantenere le posizioni di privilegio conquistate proprio in virtù dei meccanismi elettorali di tipo maggioritario.
Si pone, quindi, la questione di come riuscire, dal basso, a rimettere in moto un percorso di modifica della legge elettorale e, nello specifico, l'adozione di un sistema elettorale coerente con l'impianto costituzionale e in grado di garantire il rispetto dei principi di rappresentanza e di uguaglianza.
In tal senso, è prioritario avviare una battaglia culturale in grado di suscitare interesse in quelle fasce di elettorato per lo più non rappresentate e ormai stanche di votare in un clima politicamente schizofrenico: di guerra civile permanente sotto il profilo dei proclami; di totale assenza di temi realmente contrapposti quando si tratta dell'azione di Governo come dell'Opposizione.

Va poi affrontato di petto il berlusconismo, in quanto fenomeno leaderistico che ha dilagato anche a sinistra, malamente mascherato con operazioni di facciata quali l'adozione delle primarie.
Le primarie altro non sono, infatti, che la semplificazione maggioritaria elevata all'ennesima potenza, e questo perché svolte in ambiti ristretti e facilmente indirizzabili e perché, soprattutto, non risolvono la questione del come garantire forme partecipate per la formazione di un progetto politico plurale.
La scelta delle primarie, inoltre, anche per la designazione dei candidati al Parlamento, è francamente difficile da comprendere e si spiega soltanto con la necessità di dover salvare la faccia nel mentre si continuano ad imporre agli elettori, quale che sia il sistema elettorale, candidati “prendere o lasciare”. E che si tratti soltanto di una presa in giro è ampiamente dimostrato dalle ragioni con le quali i sostenitori delle primarie si oppongono al voto di preferenza.

Ciò che infatti non ha senso, per i sostenitori delle primarie, far scegliere all'elettore attraverso il voto di preferenza, diventa improvvisamente sensato se il tutto si svolge nel piccolo dell'organizzazione partitica.

Rischi di clientele, corruzione, correntismo, aumento dei costi della politica e quant'altro via: il meccanismo delle primarie non sembrerebbe soffrire di questi guasti.

Di fronte ad una simile ascetica convinzione, che tra l'altro fa finta di dimenticare che il candidato uninominale scelto dalle primarie si ritrova a sostenere non una, ma ben due campagne elettorali, c'è, ovviamente, ben poco da aggiungere, se non l'osservare che tanto più ristretto potrebbe essere il corpo elettorale, e quello delle primarie o delle assemblee di sezione lo è di molto, tanto più dovrebbe risultare semplice poter comprare consensi ed esercitare indebite pressioni, ed è per questo che una tale critica al voto di preferenza non ha alcun senso e si manifesta in tutta la sua strumentalità.

Quali, allora, i reali motivo di tanta acredine nei confronti del voto di preferenza anche da parte di chi, oggi, si dichiara fortemente contrario al Parlamento dei nominati?
Molto semplicemente, per costoro le critiche al Porcellum non possono e non debbono spingersi sino al punto di mettere in discussione il principio maggioritario e la forzatura bipolare insiti nella scandalosa assegnazione di un premio di maggioranza senza limiti, o l'espulsione dal Parlamento di larghe fasce di elettorato in conseguenza della soglia di sbarramento e la costrizione al voto utile.

Anzi, al contrario, la spinta che proviene da ampi settori del centrosinistra va proprio nella stessa direzione, verso, cioè, un sistema maggioritario fondato sui collegi uninominali, comprendendo in questa ipotesi anche il ritorno al Mattarellum.

Ancora una volta, quindi, un cambiamento che non modifica nulla, che riduce il pluralismo per altra via e che non restituisce alcun potere di scelta agli elettori.


Per questo motivo, proporre con forza la discussione sul voto di preferenza potrebbe divenire lo strumento di chiarezza in grado di svelare il trucco di chi oggi propone sì di superare il Porcellum, ma non per cancellare il vergognoso “Parlamento dei nominati”, bensì per portare av anti altri interessi ben lontani da quello degli elettori.
In tal senso, sarebbe grave proporre o accontentarsi delle mezze soluzioni non in grado di risolvere alla radice il problema di come realizzare l'esercizio di un diritto di voto libero da condizionamenti ed in grado di far scegliere realmente i propri rappresentanti, in quanto si finirebbe per apparire uguali agli altri, interessati soltanto a garantire la sopravvivenza del ceto politico oggi messo ai margini.

Per concludere, per quali e quanti mali possano essere stati attribuiti al sistema proporzionale e al voto di preferenza, per la liberazione dal berlusconismo, dal “Parlamento dei nominati” e dalle degenerazioni insite nel sistema maggioritario e dalla forzatura bipartitica non ci sono altre soluzioni possibili. Anche e soprattutto perché il problema della governabilità è e deve divenire questione che non può essere risolta con forme di semplificazione pasticciata del quadro politico, bensì rispondendo in maniera corretta alle legittime richieste di un corpo sociale plurale che chiede e merita di essere rappresentato così come sancito in Costituzione:

Art. 3. Cost.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

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